Fecha de recepción: abril 20 de 2022
Fecha de aceptación: marzo 3 de 2023
doi: https://dx.doi.org/10.14482/eidos.40.150.152
Una terza via. Il dialogo tra Rosmini e Tocqueville verso una nuova politica
A Third Way. The Dialogue between Rosmini and Tocqueville towards a New Politics
Filippo Salimbeni
Universidad de Los Andes (Santiago de Chile, Chile)
Riassunto
Antonio Rosmini e Alexis de Tocqueville hanno contribuito, nell'orizzonte del pensiero politico del XIX secolo, alla configurazione di un nuovo modello di filosofia politica che crediamo conservi ancora oggi spunti di grande attualità. Il presente articolo assume come scopo quello di descrivere il dialogo ideale tra i due autori in modo da lasciar emergere quella che possiamo definire una terza via sorta davanti ai problemi sociali della discussione politica dell'ottocento , ossia una terza via tra le precedenti soluzioni della restaurazione cattolica da una parte e lo spirito rivoluzionario francese dall'altra. Il cammino ideale nasce dal rinvenimento di una comune antropologia dalla quale si giungerà a una definizione della società fondata a partire dal fine che maggiormente la contraddistingue, il bene del singolo. L'urgenza e attualità dei temi che permeano gli scritti di Rosmini e Tocqueville crediamo risieda nella messa in evidenza di pericoli e storture, che oggi dominano le nostre società, ma che i nostri autori sono stati in grado di individuare sul nascere, così come si stavano formando nella società occidentale del XIX secolo.
Parole chiave: Antonio Rosmini, Alexis de Tocqueville, filosofia politica, tirannia della maggioranza, bene sociale, democrazia.
Resumen
Antonio Rosmini and Alexis de Tocqueville contributed, on the horizon of nineteenth-century political thought, to the configuration of a new model of political philosophy that we believe still retains insights of great relevance today. This article takes as its purpose to describe the ideal dialogue between the two authors in such a way as to let emerge what we may call a third way that arose before the social problems of political discussion in the 1800s, that is, a third way between the earlier solutions of Catholic restoration on the one hand and the French revolutionary spirit on the other. The ideal path arose from the rediscovery of a common anthropology from which a definition of society founded from the end that most distinguishes it, the good of the individual, would be arrived at. The urgency and topicality of the themes that permeate the writings of Rosmini and Tocqueville we believe lie in the highlighting of dangers and distortions, which dominate our societies today, but which our authors were able to identify in the bud, as they were being formed in 19th century Western society.
Palabras clave: Antonio Rosmini; Alexis de Tocqueville;political philosophy; tyranny of the majority; social good; democracy.
I. L'orizzonte storico e culturale del XIX secolo
Le filosofie di Antonio Rosmini e Alexis de Tocqueville nascono all'interno dell'egemonia culturale dell'illuminismo e in dialogo critico con esso. Si pensi ad esempio a uno dei progetti più ambiziosi del filosofo italiano che consisteva nella redazione di un'enciclopedia cattolica in opposizione al lavoro guidato da Diderot, manifesto della cultura illuminista.1 Secondo Rosmini la cultura del XVIII secolo pone infatti in questione i principi fondanti del pensiero tradizionale. La risposta non può più configurarsi come semplice riproposizione di antichi regimi, a volte anche attraverso la forza, si rende invece necessario un ripensamento critico delle proprie posizioni e al fondo l'accettazione della nuova sfida mossa dalla circostanza storica. "In tutta la storia antica non v'ebbe forse mai caso, che la società civile in Europa venisse urtata di più impeto, che nel secolo scorso; e a molto minore assolto ogni antica società sarebbe perita" (Rosmini, 2012, p. 55). Questa crisi tuttavia portò con sé nuove opportunità e segnò l'inizio di uno sviluppo del pensiero che si manifestò pienamente nel XIX secolo.
Tuttavia, venendo le cose allo stringere, toccate le conseguenze del rovesciamento delle antiche basi, molti si riscossero quasi da un sonno profondo; perciocché egli è appunto allora quando pericola l'esistenza che nelle nazioni cristiane risvegliansi dal sonno molti individui, e traggono fuori una forza intellettuale e morale nascosta, che raffrena il cieco andamento delle moltitudini. (Rosmini, 2012, p. 56)
Nel periodo dunque nel quale Rosmini e Tocqueville sviluppano i loro sistemi di pensiero sono presenti due posizioni principali nella discussione politica e culturale: la prima è rappresentata dai rivoluzionari mentre la seconda dai reazionari. I nostri due autori tuttavia non rientrano in nessuna di queste due grandi categorie, lavorando invece alla configurazione di una terza posizione, abbiamo detto una terza via. La soluzione per la costituzione di una nuova società non si trova sui cammini dei rivoluzionari ma nemmeno nei tentativi di riproposizione di forme che appartengono a una realtà ormai non più esistente storicamente, chiudendosi con questo al riconoscimento di nuovi scenari. È una mutata condizione storica e culturale che se riconosciuta, accettata e compresa fino in fondo può rappresentare un benefico approfondimento di una posizione ideale.2 In particolare i momenti di crisi permettono la riscoperta, il risveglio diceva Rosmini, delle ragioni fondamentali, dei principi e dei valori che reggono la società. Tali principi iniziano a essere visti sotto una nuova luce, offerta dalla realtà storica del momento, e a condurre alla scoperta di nuove forze e capacità esplicative.
Tratto costante e comune della riflessione dei nostri autori è infatti l'apertura alle sollecitazioni che arrivano dalle circostanze storiche nelle quali si trovano a vivere. La sottolineatura proposta da Rita Zama (2016) nel suo articolo sull'antropologia rosminiana, si può estendere a Tocqueville: "la speculazione filosofica di Rosmini affonda le sue radici in un uomo che cerca di comprendere e formulare delle risposte soddisfacenti alle esigenze politiche e sociali del suo tempo" (p. 319).
Tocqueville e Rosmini, attraverso l'apertura al contesto storico, percepirono più di altri pensatori del loro periodo i pericoli insiti in un sistema democratico senza valori e senza verità, così come si veniva delineando in quel periodo. A partire da questo dato ripensarono dunque il ruolo e la funzione della morale e della religione nella società.3 Intuirono entrambi l'importanza di tali fenomeni di cui si è avuta la riconferma quando nel XX secolo le religioni trascendenti, ancora dominanti nel periodo dei nostri autori, furono dichiarate morte, e il vuoto da esse lasciato venne immediatamente riempito dalle religioni secolari, come ad esempio quella marxista. Seguendo questa linea interpretativa potremmo trovare una nuova ragione di attualità dei modelli di Rosmini e Tocqueville dopo i tragici eventi del XX secolo, risultato totalitario di concezioni moderne del pensiero politico del secolo precedente. Non semplice casualità se entrambi i nostri autori vengono molto spesso interpretati in opposizione al più diffuso sistema di filosofia politica del XIX secolo, il pensiero hegeliano.
Desideriamo infatti osservare, come secondo e ultimo punto introduttivo al nostro lavoro, l'importanza di collocare il modello che dalla filosofia politica di Rosmini ci condurrà idealmente ai principi di Tocqueville, non solo all'interno del proprio contesto storico ma in particolare in opposizione alla nascita e diffusione del sistema di Hegel. Il pensiero politico di hegeliano, almeno nel XIX secolo, conquistò la maggioranza delle menti filosofiche europee, nell'affermazione dell'importanza dello Stato rispetto all'individuo. L'opposizione con i nostri autori non potrebbe essere più profonda, proprio nella sottolineatura, instancabile in entrambi, che il fine della società consiste nell'individuo. Giorgio Campanini (1983) dopo aver definito Rosmini l'anti-hegel per eccellenza, ben osserva come il filosofo roveretano "possa essere considerato come il più lucido e rigoroso assertore, nella prime metà dell'Ottocento, di una società senza Stato, di una società civile, cioè, in qualche modo autoregolantesi e autogestentesi" (pp. 18-19). Rosmini (2012) afferma chiaramente che "il fine della società non è altro che regolare le modalità di esercizio del diritto dei cittadini in modo da proteggerlo e svilupparlo" (p. 44).
Proprio nella difesa dell'individuo rispetto allo stato Rosmini incontra nei testi di Tocqueville un'importante conferma, in particolare, come vedremo, nei passaggi nei quali l'autore francese parla dei diritti dell'individuo e delle minoranze contro lo strapotere della maggioranza o l'intromissione dello stato nella vita del singolo. Hayek (2011), uno dei padri del liberalismo, in una conferenza sul tema dell'individualismo aveva indicato nel pensiero di Tocqueville uno dei pochi esempi di "vero individualismo" (p. 121) durante il XIX secolo.
Nella difesa dell'individuo come protagonista e fine della società Tocqueville e Rosmini attingono alla stessa fonte, ovvero il pensiero tradizionalista di De Maistre, tuttavia entrambi operano un superamento rispetto alle posizioni dell'autore de Le serate di San Pietroburgo. Come correttamente afferma Tesini 1987), De Maistre ha avuto il grande merito di aver indicato "il problema di fondo destinato a percorrere tutta la loro meditazione politica, nell'isolamento e nella debolezza dell'individuo nelle società post-rivoluzionarie e dei correlati pericoli di un nuovo e più terribile, perché irresistibile, asservimento" (p. 267).
Concludendo, Rosmini, insieme a Tocqueville, pone lo scopo della vita sociale nell’individuo e non nello stato per ottenere il riscatto della persona dal suo stesso isolamento e attribuendo i tradizionali compiti dello stato alla società civile, vera oppositrice del modello hegeliano. Quest’ultimo è in questo senso profonda-mente antisociale in quanto fondato sulla relazione tra padrone e schiavo che si configura come rapporto tra due persone non aventi entrambe dignità di fine in se stesse. Possiamo intravedere già a partire da questo primo punto una soluzione comune presente nei nostri pensatori, come correttamente Tesini (1987) osserva concludendo il suo saggio su Tocqueville e Rosmini.
Ed e’ appunto nella ferma rivendicazione del primato della società civile e correlativamente del valore assoluto dei diritti individuali e della necessità di forme nuove di garanzia e di tutela a fronte di inedite e più sofisticate minacce, che consiste la ragione dell’accostamento di due tra le più alte espressioni della coscienza liberale europea alla metà dell’Ottocento, e probabilmente anche la ragione della appassionata e feconda lettura che di Tocqueville fece Rosmini un secolo e mezzo fa. (p. 287)
Siamo ora in grado di iniziare la nostra riflessione sulla società civile così come ci si presenta attraverso gli scritti di Rosmini e grazie all'influenza delle idee di Tocqueville sul pensiero dello stesso filosofo italiano.
II. Il Fine deiia società: dall'antropologia a un nuovo modello di società
Antonio Rosmini legge il primo volume della Democrazia in america già nel 1835 e successivamente scrive il suo testo più importante di filosofia politica, La società e il suo fine, tra il 1837 e 1839. In questo testo Tocqueville risulta l'autore più citato da parte del pensatore italiano, e questo nonostante l'Italia, della prima metà del XIX secolo4 era "un paese nel quale il liberalismo, per lungo tempo culturalmente e politicamente in minoranza, ebbe l'effetto di isolare pensatori come Tocqueville in una posizione marginale" (Rosmini, 2017, p. 276).
Analizzeremo quindi l'influenza del primo volume della Democrazia in America in Rosmini visto che non abbiamo nessuna prova di una sua lettura del secondo volume e al momento della pubblicazione de L'antico regime e la rivoluzione nel 1865 Rosmini era morto da un anno. Richiamandoci al recente libro di Mauro Buscemi,5 osserviamo inoltre da parte di Tocqueville, malgrado una non sicura conoscenza del pensiero di Rosmini, come dovesse conoscere il pensatore roveretano, almeno indirettamente, visto che mentre ricopri il ministero degli esteri in due lettere chiese ai propri collaboratori di contattare il filosofo italiano.
Un aiuto importante per la nostra analisi sarà un quaderno di estratti del primo volume della Democrazia in America redatto dal segretario di Rosmini sotto diretta indicazione del pensatore italiano. Leggendo questi estratti possiamo formarci un'idea dei temi di Tocqueville che apparivano a Rosmini più conformi alla propria prospettiva filosofica e che lo portarono a dichiarare la propria volontà di voler procedere "sulle tracce del signor Tocqueville" (Rosmini, 2012, p. 72). Malgrado questo deciso apprezzamento non mancano evidentemente indicazioni critiche da parte di Rosmini e punti di disaccordo tra i nostri pensatori che lasceremo emergere nel corso della nostra riflessione.
La società e il suo fine rappresenta il testo, come abbiamo detto, in cui si può apprezzare maggiormente la costruzione di un nuovo modello di filosofia politica sviluppata da Rosmini sotto l'influenza di Tocqueville. Il pensatore italiano inizia la sua descrizione della società interrogandosi sul suo fine, come suggerisce il titolo stesso dell'opera. Chiarire il fine della società è il tema fondamentale di Rosmini perché dal fine dipendono i valori stessi della società e la possibilità quindi di evitare, come vedremo, il pericolo di una democrazia senza valori e di una tirannia della maggioranza, richiamandoci al lessico di Tocqueville.
All'inizio del suo capolavoro, l'autore italiano affronta la crisi post-rivoluzionaria come un'opportunità, atteggiamento di cui abbiamo parlato all'inizio del nostro lavoro, che se sfruttata permette di poter chiarire ulteriormente il significato delle società moderne.
La crisi dunque ha per iscopo nell’ordine della provvidenza, e per sicuro effetto di ravvivare nelle menti qual perchè avessero le antiche istituzioni. Ravvivatasi questa memoria svanita, vengono a raggiungersi per essa le istituzioni antiche colle moderne: così nella mente degli uomini il sistema si rende completo, la scienza è avanzata, è ammigliorata la società. (Rosmini, 2012, p. 40)
Rosmini descrive la società come l'unione di persone che si trattano come fini e non come mezzi. L'opposto di tale tipo di società consisterebbe nel ristabilirsi di regimi di schiavitù dell'uomo verso l'uomo, cioè l'uso dell'altro come mezzo al posto del rispetto dell'altro come fine. In tale contesto si può apprezzare la giusta sottolineatura di Nicoletti6 che fa notare come nella riflessione rosminiana sulla libertà e in particolare nella Filosofia del diritto il pensatore italiano non casualmente inizia da una decisa condanna della schiavitù definita come "l'uso che un uomo pretende di poter fare costantemente di un altro uomo come di un mero mezzo ai suoi fini" (Rosmini, 2014, p. 43).
Il nostro autore costruisce così la sua filosofia politica sulla base della sua antropologia, sviluppata negli anni precedenti7 e dove il concetto di persona gioca un ruolo essenziale. Nella sua opera principale di antropologia la persona è definita da Rosmi-ni (1981) come "un individuo sostanziale che contiene in sé un principio attivo, intelligente e incomunicabile" (p. 53). Si tratta di una concezione dell'individuo come volontà intelligente, capace di agire per il miglioramento della società e di se stesso. Come ricorda Mario De Benedetti (2021), introducendo la definizione rosminiana appena citata, "l'individuo democratico conosce il valore dell'azione, in quanto è attraverso il dinamismo attivo dell'operare che l'essere umano capisce e svela se stesso" (p. 98).
La stessa difesa di un individuo capace di azione libera ed efficace nella realtà si trova più volte in Tocqueville. C’è un discorso che ci sembra particolarmente rivelatore in questo senso, pronunciato dall'autore francese contro il socialismo nel 1848,8dove è interessante notare come il socialismo venga descritto da Tocqueville come una nuova forma di servitù, in linea dunque con ciò che abbiamo precedentemente ricordato di Rosmini.9
Il tratto che sopra ogni altro caratterizza ai miei occhi i socialisti di tutti i colori, di tutte le scuole [...] è una sfiducia profonda per la libertà, per la ragione umana; un profondo disprezzo per l'individuo preso in se stesso, al suo stato di uomo; ciò che li caratterizza tutti è un tentativo continuo, vario, incessante, per mutilare, per raccorciare, per molestare in tutti i modi la libertà umana; è l'idea che lo Stato non debba soltanto essere il direttore della società, ma debba essere, per così dire, il padrone di ogni uomo [...] in una parola e' la confisca in un grado più o meno grande della libertà umana, a tal punto che, se dovessi trovare una formula generale per esprimere ciò che il socialismo mi sembra nel suo insieme, direi che è una nuova forma di servitù. (Tocqueville, 2001, pp. 284-285)
Questa critica rivela un apprezzamento profondo della persona umana, che non può che essere considerata se non come il centro della società civile. Questa valorizzazione dell'individuo in alcuni punti si trasforma in una sorte di stupore negli scritti del pensatore francese. "Non ho bisogno di percorrere il cielo e la terra per scoprire un oggetto meraviglioso, pieno di contrasti, di grandezze e miserie infinite, di oscurità profonde e di singolari chiarezze, capace di provocare pietà, ammirazione, disprezzo e terrore” (Tocqueville, 1999, p. 564). Rosmini (1981) tuttavia non è da meno quando nel suo libro dedicato alla problematica antropologica definisce l’oggetto di tale scienza un “essere tanto meraviglioso a se stesso” (p. 18).
Studiando il pensiero di Rosmini e Tocqueville, ci troviamo dunque davanti a una concezione dell'individuo che non può essere ridotta a mezzo per altri fini e che influenza le loro teorie politiche. Seguiamo su questo il ragionamento sviluppato da Rosmini in La società e il suo fine. Ogni individuo è un fine in se stesso e unendosi in società con altri acquisisce un fine che è comune. Questo fine non deve essere inteso come una somma di fini o beni individuali, ma come il bene che la società persegue nel suo insieme e che deve essere veramente e originariamente comune. "Per tal modo il bene sociale al quale essi intendono non è una mera collezione di beni individuali; ma è un bene veramente comune, unico nel suo concetto, del quale partecipano tutti i singoli" (Rosmini, 2012, p. 131).
Il primo passo per definire la natura della società è quindi definire il suo fine. Il fine della società è comune, abbiamo detto, e deve essere un bene che perfeziona la parte più alta e più nobile dell'uomo.
La parte corporea ed esteriore della società si dee considerare come il mezzo di perfezionare la parte interiore e spirituale, nella quale esiste propriamente l'uomo, e risiede il diletto e la perfezione di cui egli è suscettibile: in questo dunque dee consistere anche il fine ultimo di ogni società. (Rosmini, 2012, p. 132)
Il bene della società, oltre ad essere unico, deve quindi essere umano, cioè deve considerare l'uomo nel suo insieme, corrispondente cioè a ogni sua peculiarità ed esigenza. In breve, lo scopo della società deve essere un bene, comune, umano e infine vero. Vero cioè reale: se infatti una società cercasse una parvenza di bene o un bene irraggiungibile e irreale, essa stessa diventerebbe un male per gli individui, distraendoli dai beni reali.
Alla fine di questa prima parte del ragionamento, dove Rosmini segue, come nel suo stile, un metodo assolutamente deduttivo,10 si arriva alla seguente conclusione. "Principio semplice, ma che pur dee starsi in capo di ogni buona dottrina, è questo: ogni società, di qualsiasi forma o natura, conviene che tenda ultimamente al vero bene umano" (Rosmini, 2012, p. 133). Ma non abbiamo ancora definito quale sia questo vero bene umano. Rosmini lo chiarisce qualche pagina più avanti quando spiega come il desiderio più essenziale della natura umana sia il desiderio morale, nel quale volontà e intelletto cooperano insieme. La natura umana, composta da volontà e intelletto, può essere soddisfatta solo quando questo desiderio morale si trovi incluso nella realizzazione della persona. Per questo:
il vero bene umano non è altro se non la virtù morale, e tutti quei beni che possono stare insieme colla virtù. Ogni qualvolta un bene di qualsivoglia specie non può stare insieme con la virtù, egli cessa dall'esser bene umano, perché niente è bene umano di ciò che esclude la virtù. (Rosmini, 2012, p. 136)
A questo punto, potrebbe apparire una certa distanza nell'approccio di Rosmini rispetto alle prospettive di Tocqueville. L'autore francese giudicava irrealistico il concetto classico di virtù in cui il bene collettivo era interpretato come bene totalmente disinteressato e senza alcuna relazione con il bene individuale.
Le antiche repubbliche erano basate sul principio del sacrificio degli interessi particolari per il bene generale. In questo senso si può dire che sono virtuosi. Il principio di questi mi sembra far coincidere l'interesse particolare con l'interesse generale. (...)
Fino a che punto si possono confondere i due principi del bene individuale e del bene generale? (Tocqueville, 1997, p. 54)
La soluzione di Tocqueville a questo problema è tuttavia la stessa di Rosmini. Non si può pretendere di eliminare i beni individuali dal concetto di virtù o dal fine della società civile, ma nella società questi beni individuali devono essere diretti al bene comune. Non solo, è la stessa tendenza naturale dell'individuo alla felicità individuale che spinge il cittadino a partecipare al bene comune. In questa prospettiva occorre intendere il legame posto da Rosmini (2012) tra il compimento della virtù morale e la felicità dell'uomo, indicato attraverso il concetto di appagamento.
Nella stessa origine della virtù si trova un intimo nesso, che lega la virtù con la felicità [...] All'incontro, se l'uomo gode, ed in pari tempo la sua ragione approva il suo godere; la natura umana trova allora in quel diletto vera quiete e compito appagamento (p. 137).
Rosmini è particolarmente attento nel differenziare la realizzazione ultima da quella dei piaceri immediati, indicando la distinzione nel fatto che la prima delle due è l'unica che si riferisce all'uomo nel suo insieme, mentre i piaceri soddisfano sempre una facoltà particolare dell'individuo. Ci sono diversi piaceri ma una solo è la realizzazione dell'uomo.
Occorre soffermarsi su quest'ultimo punto per evitare un'errata interpretazione che lascerebbe credere alla convinzione da parte di Rosmini che vi sia solo una via o un'unica configurazione della realizzazione ultima dell'uomo, alla quale occorra conformarsi. Non solo una simile interpretazione non rispecchierebbe il pensiero rosminiano ma ne rappresenta potremmo dire l'esatto contrario, ossia quel pericolo omologante e di perdita dell’individualità che contraddistingue secondo il nostro autore le società moderne.
La prima ragione per cui occorre evitare tale interpretazione sono i costanti richiami di Rosmini rispetto al fatto che la felicità individuale non è opera della società nel suo insieme, ma solo frutto di un percorso personale. La società ha solo il compito di rimuovere gli ostacoli alla realizzazione personale, cioè ha una funzione puramente negativa e non, potremmo dire, costruttiva della felicità individuale. Pensiamo in questo senso alle promesse che diversi stati, totalitari e non, hanno pronunciato un secolo dopo Rosmini, presentando come liberatoria l'assunzione di responsabilità esclusiva da parte dello stato nella costruzione e garanzia della felicità collettiva e individuale. L'uomo viene liberato dalla fatica dell'agire, potremmo dire dal peso della sua libertà, lasciando allo stato il difficile compito. Tuttavia come ben osserva Rosmini nella Filosofia del diritto è la coscienza individuale che giudica il potere politico, e pertanto, ci sembra di poter aggiungere, occorre impedire ancora oggi la pretesa del potere politico di giudicare le coscienze individuali. In tale prospettiva le riflessioni come quelle di Tocqueville e Rosmini vanno a costituire un unico argine contro l'invadenza dello stato.
C’è un'affermazione molto suggestiva di Tocqueville (1999) nella Democrazia in America grazie alla quale risulta evidente la sintonia con i ragionamenti e le paure rosminiane rispetto all'individuo nella società.
Cosa mi importa, dopotutto, che vi sia un'autorità sempre pronta, che veglia a che i miei piaceri siano tranquilli, che vola avanti a me per allontanare i pericoli dal mio cammino, senza che io abbia bisogno di pensare a tutto questo; se questa autorità, nel tempo stesso che allontana le più piccole spine sul mio passaggio, è padrona assoluta della mia libertà e della mia vita; se monopolizza il movimento e l'esistenza al punto che quando essa languisce, languisce tutto intorno a lei, che tutto dorme quando essa dorme, che tutto perisce quando essa muore ? (p. 96)
Entrambi i nostri autori si mostrano dunque preoccupati dal costante pericolo di una limitazione della libertà individuale e quindi della responsabilità delle proprie azioni personali. C’è una consapevolezza comune, che Rosmini (2011) ben descrive nella Teodicea affermando che "il più grande beneficio che si possa dare all'uomo non consiste nell'offrirgli un bene, ma nel fare in modo che egli stesso sia l'artefice di questo bene" (p. 154). La libertà individuale di ogni uomo, che il filosofo italiano concepisce come mezzo necessario alla realizzazione individuale, impone il diritto per ognuno di "scegliere quel tenore di vita che egli giudica più confacente all'ottenimento del bene morale, che è la virtù più perfetta e l'appagamento morale dell'animo" (Rosmini, 2012, p. 159). Qui risiede una seconda dimostrazione per la quale, nell'affermare un compimento ultimo, Rosmini non voglia imporre alcun modello omologante.
Chiarita la fondamentale difesa dell'individuo da parte di Rosmini e Tocqueville, vorremmo concludere questo primo capitolo riprendendo la distinzione tra piaceri e realizzazione umana. Ci sembra infatti che essa sia motivo di una forte attualità del pensiero dei nostri autori. La distinzione tra piacere immediato e realizzazione umana può essere interpretata come una critica ante litteram della società edonista e consumista di oggi. L'uomo è abituato a porre il fine della propria vita nell'accumulo di vari piaceri. In questo modo si ritrova perso e senza punti di appoggio che possano unificare e dare un senso alle proprie azioni. Quello che manca, per dirla con Rosmini, è il riferimento al fine ultimo della realizzazione morale. La mancanza, o meglio l'erosione di una morale consolidata, anche nella prospettiva di Tocqueville, si configura come una riduzione dell'uomo all'immediatezza dei piaceri, incapace di rimandarli e di prendere il controllo su se stesso.
Rosmini distingue il fine remoto di una società come realizzazione di tutto l'uomo e il fine prossimo come beni e piaceri individuali. La filosofia politica deve utilizzare i mezzi a sua disposizione per ordinare al fine remoto il fine prossimo di ogni individuo. La società stessa, tuttavia, è solo un mezzo per ogni individuo con il fine di raggiungere più facilmente la propria realizzazione umana. Con Rosmini e Tocqueville siamo quindi agli antipodi del sistema hegeliano, un nuovo modello dove né lo stato né la società sono fini a se stessi, ma mezzi, per raggiungere l'unico fine che è la realizzazione della persona. Si comprende dunque la conclusione di Rosmini (2012) dove si indica come primo diritto, e dovere, dell'uomo il tendere alla propria realizzazione. "Questo diritto al proprio morale appagamento ed alla propria felicità, che ha ciascun uomo, sia per natura inalienabile [...] quello non è solamente il primo dei diritti ma che è ben anco il più generale dei doveri" (p. 152).
III. La coscienza del fine: moralità e religione
Secondo Rosmini, la conservazione e lo sviluppo di una società dipendono dalla consapevolezza del suo scopo. La consapevolezza di quest'ultimo è favorita da alcuni fattori e ostacolata da altri. Tra i fattori favorevoli che mantengono una società unita e cosciente, spiccano due temi centrali sui quali vogliamo concentrare la nostra attenzione: la moralità e la religione. La scelta di questi due fattori è dettata anche dall'esistenza di una grande influenza di Tocqueville sul pensiero di Rosmini. Riguardo a tali temi l'autore francese già nella prima parte della sua Democrazia in America descrive la necessità di una religione e quindi di una morale comune diffusa per il buon funzionamento del meccanismo democratico. Tocqueville (1961) afferma questa necessità in una lettera estremamente significativa dove descrivendo gli obiettivi del suo lavoro individua gli elementi che aiutano allo sviluppo di una società democratica.
A coloro che si son costruito un regime democratico ideale, sogno brillante che credano di poter realizzare agevolmente [... ] ho voluto dimostrare che questo governo non può sostenersi che in certe condizioni di diffusione dell'istruzione, di consolidata moralità privata, di viva fede: tutte cose che noi non abbiamo affatto, e che bisogna procurar di ottenere prima di pensare alle conseguenze politiche. (pp. 45-46)
Partendo dalla morale, che ovviamente è strettamente legata al fenomeno religioso, vorremmo osservare che il fine della società secondo l'autore italiano è un bene morale. Non solo, ma nel cuore stesso della società si situa un legame di tipo morale tra le persone, che, come abbiamo già detto, spinge le persone a trattarsi come fine e non come mezzo. L'elemento morale è presente nell'essenza stessa della società, tanto che Rosmini arriva ad affermare che ciò che fonda la società è in qualche modo la morale stessa. La moralità è "la virtù la quale viene insegnata dal cristianesimo, cioè la virtù perfetta, quella che rende soave il movimento della macchina sociale, e che provvede alla conservazione di una macchina sì importante" (Rosmini, 2012, p. 117). Secondo Rosmini il più importante insegnamento della morale per la scienza della società consiste nell'affermare che nessuno ha il diritto di abusare del proprio diritto. La società infatti deve regolare proprio questo buon uso del diritto, che nella morale del cristianesimo trova in qualche modo un posto per svilupparsi.
La filosofia politica allora non ha nulla da temere nell'aprirsi alla sfera morale, ricavando direttamente da essa alcuni principi. In questo consiste anche l'opposizione di Rosmini a un altro pensatore politico italiano, Machiavelli.11
La scienza politica deve utilizzare le verità appartenenti alle scienze morali, non come verità che essa stessa insegna e dimostra, ma come verità antecedenti ad essa e già dimostrate. Sarebbe assurdo e mostruoso concepire una scienza politica che volesse astrarre e dispensare completamente dai diritti e dai doveri morali degli uomini. Machiavelli fu la causa di gran parte della caduta della scienza politica. (Rosmini, 2012, p. 118)
Secondo Tocqueville e Rosmini, la scienza politica deve rimuovere gli ostacoli allo sviluppo della morale perché essa permette il fondamento, l'equilibrio e il funzionamento della società.
La moralità è la conseguenza della religione che Tocqueville, nella sua analisi degli Stati Uniti, definisce presente fin dall'inizio in tutte le sfere della società americana. Il popolo americano "avendo accettato senza esame i principali dogmi della religione cristiana, si trova costretto ad accettare allo stesso modo un gran numero di verità morali che necessariamente ne derivano" (Tocqueville, 1999, pp. 494-495). Tocqueville, come Rosmini, propone un modello specifico di relazioni tra religione e politica, affermando come primo passo la necessità di una distinzione totale tra le due. Questa distinzione, come giustamente sottolinea Giannetti (2018), "non sottintende l'irrilevanza pubblica delle credenze religiose ma, al contrario, rappresenta il presupposto del riconoscimento della religione come elemento indispensabile per la salvaguardia e il potenziamento della libertà" (p. 287).
Negli Stati Uniti, Tocqueville vede una società in cui la religione è indipendente dallo Stato e proprio per questo la sua influenza sulla società civile si mostra più persistente e sicura. Benedetto XVI (2008), in uno dei suoi viaggi negli Stati Uniti, ha ripreso queste parole di Tocqueville, affermando il valore dello Stato laico come uno Stato che assicura lo sviluppo della religione nella sua autenticità.
Quello che trovo affascinante negli Stati Uniti è che hanno incominciato con un concetto positivo di laicità, perché questo nuovo popolo era composto da comunità e persone che erano fuggite dalle Chiese di Stato e volevano avere uno Stato laico, secolare che aprisse possibilità a tutte le confessioni, per tutte le forme di esercizio religioso. Così è nato uno Stato volutamente laico: erano contrari a una Chiesa di Stato. Ma laico doveva essere lo Stato proprio per amore della religione nella sua autenticità, che può essere vissuta solo liberamente.
Nel primo volume della Democrazia in America C’è una nota affermazione di Tocqueville che lo stesso Rosmini trascrive nel suo quaderno al quale abbiamo accennato all'inizio del lavoro. "Libera e potente nella sua sfera, soddisfatta del posto riservatole, la religione sa che il suo regno è tanto più stabile quanto più può contare sulle sue sole forze, quanto più domina, senza aiuto alcuno, sui cuori" (Tocqueville, 1999, p. 62).
Mentre Tocqueville parla diffusamente dell'influenza indiretta della religione sulle istituzioni civili, Rosmini definisce la religione come un mezzo politico molto efficace. Il presupposto per gli effetti positivi della religione è anche in questo caso suggerito dallo stesso Tocqueville: l'indipendenza e la libertà del fenomeno religioso. Nel testo Filosofia del Diritto Rosmini (1987) parla diffusamente delle connessioni tra libertà religiosa e libertà dello Stato. "Il cristianesimo, liberato, potrà di nuovo esercitare la sua influenza naturale e completamente spirituale sugli ordini civili" (p. 81). A questo punto, possiamo osservare ciò che è stato detto nell'introduzione di questo lavoro. Se Tocqueville e Rosmini rifiutano il modello rivoluzionario uscito dalla Francia, non possono nemmeno essere ridotti ai criteri della restaurazione, cioè una nuova presentazione di vecchi ordini e istituzioni con la stessa misura dei contesti passati, ovvero un cattolicesimo politico. La religione deve prima essere liberata dallo stato e dagli ordini politici da cui è stata catturata, altrimenti il prezzo sarà lo smarrimento della sua stessa essenza e missione spirituale. Questo naturalmente non coincide con il ritiro della religione dalla sfera pubblica da parte del nostro autore, ma piuttosto con un maggiore impatto sulla società proprio perché liberata dalle catene degli ordini prestabiliti. "In Europa, la religione era legata alle potenze della terra, che oggi stanno cadendo. Tagliate i legami con i morti e la religione risorgerà" (Tocqueville, 1999, p. 408).
Una giusta relazione tra religione e società sarebbe una relazione di ispirazione e non di subordinazione. Per Rosmini, il cristianesimo ha l'effetto indiretto di rendere gli individui più consapevoli dei loro diritti. Si tratta di interpretare l'ispirazione che viene dalla religione come una sorta di forza propulsiva verso la difesa dell'individuo e dei suoi diritti. Osserviamo come entrambi i pensatori non interpretano la religione solo nella sua funzione negativa, per così dire, cioè come limitazione del potere statale; una rivendicazione di spazi che lo stato non può invadere e che sono finalizzati allo sviluppo della persona umana. Indubbiamente ci sono tutti questi tipi di indicazioni nei nostri autori, ma crediamo che sia di grande interesse che allo stesso tempo la religione diventi, come abbiamo detto, una forza propositiva della società civile, perché punta direttamente all'individuo, educandolo e rendendolo cosciente del suo scopo, sia particolare che comune, nella società.
I nostri autori sono convinti che qualsiasi riforma di una società può avvenire solo attraverso l'individuo piuttosto che attraverso il miglioramento del sistema politico. Il cristianesimo mira a "penetrare nella società solo dopo aver conquistato l'individuo, a correggere la società dopo aver corretto l'individuo, e a vivificare la società dopo aver vivificato l'individuo" (Rosmini, 1987, p. 851).
Anche qui, l'individualismo e la difesa della persona sono tratti che accomunano i nostri autori, in un secolo, ripetiamo, in cui lo stato sembra valere molto più della persona. Il cristianesimo ha aiutato la società attraverso la ragione dell'individuo e non delle masse. Questa idea di Rosmini, crediamo, alluda alla sua appassionata lettura di Tocqueville, soprattutto su un punto, con il quale vogliamo concludere il nostro lavoro: la tirannia della maggioranza.
IV. La perdita della coscienza individuale: la tirannia della maggioranza
Rosmini spiega in vari modi come la religione, proprio per le caratteristiche di cui stiamo parlando, sia una solida garanzia per la società civile contro il dispotismo. Quest'ultimo, però, non ha un solo modo di manifestarsi ma, come afferma il pensatore italiano, è pluriforme. Lo stesso Tocqueville in questa prospettiva parla di un dispotismo più intelligente, differente dall'antico perché non più immediatamente e direttamente identificabile, che unifica i pensieri della maggioranza e opprime le minoranze isolando gli individui.
Il padrone non dice più: tu penserai come me o morirai; dice: sei libero di non pensare come me; la tua vita, i tuoi beni, tutto ti resta; ma da questo giorno tu sei uno straniero tra noi.[...] Resterai fra gli uomini, ma perderai i tuoi diritti all’umanità. Quando ti avvicinerai ai tuoi simili, essi ti fuggiranno come un essere impuro; e, anche quelli che credono alla tua innocenza, ti abbandoneranno, poiché li si fuggirebbe a loro volta. Va inpace, io ti lascio la vita, ma ti lascio una vita che è peggiore della morte. (Tocqueville, 1999, pp. 302-303)
Un profondo conoscitore di Rosmini. come Pietro Piovani (1997), descrive così il pensiero di Rosmini, inserendolo come possiamo notare nella prospettiva del ragionamento di Tocqueville, che anche oggi assume un'attualità sconcertante.
Rosmini aveva capito che la tirannia della maggioranza è peggiore di ogni altra tirannia perché non mette un despota contro la società, ma rende dispotica la società stessa togliendo all'individuo ogni difesa, anche quella della coscienza individuale, criticata e rifiutata come valore autonomo dalla coscienza collettiva. (p. 293)
Quando Rosmini affronta, nel suo testo Il fine della società, il tema del dispotismo, il riferimento a Tocqueville diventa infatti esplicito.
Nelle democrazie si manifesta molestissima e ingiustissima la tirannia della maggioranza. Io rimetto il lettore alle riflessioni molto vere o molto sensate, che Alessio de Tocqueville fa sulla tirannia che la maggioranza esercita negli Stati Uniti d'America e mi restringo a riferir solo alcuni brani di questo scrittore. (Rosmini, 2012, p. 107)
Tra i brani riportati da Rosmini troviamo il seguente pensiero di Tocqueville (1999).
Se mai accade, che la libertà si perda in America, ciò converrà attribuirsi all’onnipotenza della maggioranza, che avrà ridotte le minoranze alla disperazione, e le avrà sforzate a ricorrere alla forza materiale.[...] Si vedrà allora l’anarchia, ma ella comparirà come una conseguenza del dispotismo. (1999)
Rosmini definisce la descrizione dei pericoli e dei rimedi della tirannia della maggioranza come la spina dorsale dell'intera opera di Tocqueville. La riflessione di Tocqueville crediamo trovi la propria essenza nell'aver definito il principio o la giustificazione su cui si fonda la tirannia della maggioranza: tutto è permesso nell'interesse della società. Un'affermazione in cui il pensiero della società non è altro che il pensiero della maggioranza. Secondo Tocqueville, ci sono due tipi fondamentali di tirannia: uno si può descrivere da un punto di vista politico e si può configurare attraverso un eccesso di potere delle assemblee legislative; l'altro dal punto di vista sociale, si manifesta attraverso una sorta di conformismo imposto alle opinioni. La relazione fondamentale è quella tra la maggioranza e il potere politico. Lo statista deve saper resistere agli impulsi della maggioranza e non cedere ad essa.
L’argomento non poteva che interessare un pensatore come Rosmini, soprattutto rispetto al passaggio nel quale l’autore francese si riferisce al peso delle opinioni della maggioranza rispetto alla fragilità del singolo individuo.
Man mano che i cittadini diventano più uguali e più simili, la tendenza di ciascuno a credere ciecamente in un uomo o in una classe diminuisce. La disposizione a credere nella massa aumenta, ed è sempre più l'opinione comune che guida il mondo. Non solo l'opinione comune è l'unica guida lasciata alla ragione individuale nei popoli democratici, ma gode di un potere infinitamente maggiore tra loro che tra gli altri popoli. (Tocqueville, 1999, p. 498)
È così che l>emancipazione del soggetto, iniziata in ambito filosofico nel XVII secolo, è fatalmente destinata a divenire regola dell>opinione maggioritaria. L>individuo in questo contesto è percepito come del tutto insignificante rispetto alla massa. Trovandosi isolato e terrorizzato infatti, lascia inevitabilmente spazio allo Stato, ma a uno Stato che diventa sempre più autorità paterna come la definisce Tocqueville. Lo Stato
è contento che i cittadini si svagano, purché non pensino che a svagarsi. Lavora volentiere alla loro felicità, ma vuole essere l'unico agente e il solo arbitro; provvede alla loro sicurezza, prevede e garantisce i loro bisogni, facilita i loro piacere, guida i loro affari principali, dirige la loro industria, regola le successioni, spartisce le loro eredità: perché non dovrebbe levare loro totalmente il fastidio di pensare e la fatica di vivere? (Tocqueville, 1999, p. 812)
Lo stato assume compiti che non gli sono propri perché, come sottolinea Rosmini, la prima causa di questo dispotismo e che l'individuo in qualche modo permette, è il non avere chiare le funzioni dello stato e i diritti degli individui. La funzione dello Stato è la regolamentazione dei diritti, non la loro realizzazione, un errore che si verifica quando non è viva nella società e nei suoi membri la coscienza del fine della società, il punto da cui Rosmini ha iniziato il suo scritto.
Leggendo Tocqueville, Rosmini si convince sempre più che il dispotismo non dipenda, in definitiva, dal fatto che il governo sia nelle mani di pochi o di molti individui; anche la democrazia americana corre lo stesso pericolo di cadere nella tirannia degli altri sistemi. Né basta avere libere elezioni per evitare questo rischio, perché in questo caso "i cittadini escono per un momento dalla dipendenza, per designare il loro padrone, e poi vi rientrano" (Tocqueville, 1999, p. 813).
Secondo Rosmini, nessun sistema politico può resistere alla tirannia dell'uomo sull'uomo, finché il desiderio della maggioranza rimane l'unico criterio e l'interesse della società e del popolo l'unico fine capace di giustificare ogni decisione. Come afferma lo stesso Tocqueville, "si è scoperto ai giorni nostri che vi erano nel mondo tirannie legittime e sante ingiustizie, purché fossero esercitate in nome del popolo" (Tocqueville, 1999, p. 464). È chiaro che per entrambi gli autori l'unica via d'uscita è porre un valore superiore alla volontà della maggioranza stessa o agli interessi del popolo, e questo valore è la giustizia.
Tocqueville ha sottolineato l'esistenza di:
una legge generale che è stata fatta, o almeno adottata, non solo dalla maggioranza di questo o quel popolo, ma dalla maggioranza di tutti gli uomini. Questa legge è la giustizia. La giustizia rappresenta, dunque, il limite del diritto di ogni popolo [...] Quando, pertanto, rifiuto di obbedire a una legge ingiusta, non nego affatto alla maggioranza il diritto di comandare; faccio appello soltanto alla sovranità del popolo alla sovranità del genere umano. (Tocqueville, 1999, p. 297)
Mentre entrambi i nostri autori concordano sul valore della giustizia come riferimento ultimo, Rosmini non accetta quest'ultimo argomento di Tocqueville e differisce profondamente per quanto riguarda il fondamento della giustizia, che secondo l'autore francese si basa sul consenso della maggioranza del genere umano. Rosmini, nel suo La società e il suo fine, descrive infatti quasi con un certo stupore il ritrovamento di un tale errore nel testo di Tocqueville.
È singolare a vedere come Tocqueville, che parlò con tanta verità della tirannia della maggioranza, si lasci pur egli preoccupar talora da degli errori comuni. Uno di questi errori da' quali non sembra che siasi saputo interamente guardare l'egregio scrittore, si è quello che riguarda la vera base della libertà umana. Questa base della libertà non è che la giustizia, la quale di sua natura è indipendente dall'intero genere umano altrettanto quanto la verità. Ella è eterna [...] Ora chi crederebbe che l'autore indicato descrivesse la giustizia come cosa dipendente dalla maggioranza degli uomini, riducendola per tal modo a cosa umana? (Rosmini, 2012, p. 285)
Nell'antropologia Rosminiana si osserva un radicamento della libertà umana nella dimensione trascendente della verità, la quale permette, come sottolinea Rita Zama (2006), "di esprimere chiari giudizi sul bene e sul male oggettivamente fondati sulla conoscenza dell'essere, di poter conoscere la vera essenza dell'uomo e in essa essere pienamente liberi" (p. 328).
A partire da tale convinzione si capisce la critica di Rosmini alle affermazioni di Tocqueville: "Io riguardo come empia e detestabile questa massima, che in materia di governo la maggioranza di un popolo abbia il diritto di fare ogni cosa" (Tocqueville, 1999, p. 264). Rosmini non ha obiezioni finora, ma rivela una contraddizione nella seconda parte del pensiero di Tocqueville. "Tuttavia, pongo nella volontà della maggioranza l'origine di tutti i poteri" (Tocqueville, 1999, p. 264), spiegando, come abbiamo già chiarito, che in questo caso la maggioranza a cui si fa riferimento è la maggioranza di tutto il genere umano.
La risposta di Rosmini allo stesso problema è diversa e crediamo sia radicata proprio in una differente comprensione della profondità del fenomeno religioso e della morale di cui abbiamo parlato nel nostro lavoro. Vediamo innanzitutto come Rosmini risponde a Tocqueville rispetto al problema del fondamento della giustizia.
La giustizia non è stata fatta, con sua buona pace, dalla maggioranza degli uomini: e quand'anco la loro maggioranza l'avesse rigettata, ella sarebbe tuttavia il solo fonte de' poteri legittimi. Non è dunque la maggioranza il fonte de' poteri giusti; anzi la maggioranza altrettanto quanto la minorità non può che ubbidire e sottomettersi alla giustizia. (Rosmini, 2012, p. 285)
Avanziamo l'idea che questa risposta dipenda da un modo diverso di guardare al fenomeno religioso e alla morale cristiana perché Tocqueville, e questa è una critica che non viene avanzata solo da Rosmini,12 aveva inteso la religione solo per la sua utilità in riferimento al vivere comune della società. cioè, il criterio, la lente attraverso cui Tocqueville vede il fenomeno religioso è solo quello dell'utilità sociale, lasciando da parte la dimensione della verità trascendente. Secondo l'autore francese, la religione "anche se non servirebbe a salvare gli uomini nell'altro mondo, è almeno più utile alla loro felicità e grandezza in questo" (Tocqueville, 1999, p. 509).
Sul fatto che la religione e la morale cristiana possiedano parole utili alla vita comune degli uomini Rosmini è in pieno accordo con Tocqueville, e abbiamo cercato di osservarlo nel nostro lavoro, ma se la religione cristiana, dica effettivamente qualcosa di vero all'uomo al di fuori di questa influenza positiva, è argomento che l'autore francese non prende in considerazione. Gli effetti secondari di una religione, come la sua utilità civile, non possono essere il motivo primario che spinge gli individui ad abbracciare i suoi contenuti. L'argomento di Tocqueville sull'utilità della religione sembra ben adattato a un'epoca, il XIX secolo, in cui la fede stava già perdendo la sua vivacità e le vecchie certezze stavano iniziando a scomparire per l'avanzare sempre più deciso del fenomeno della secolarizzazione. Fenomeno quest'ultimo che avrebbe portato, nel corso anche del XX secolo, alla rimozione del fenomeno religioso laddove le ragioni di quest'ultimo non si fossero dimostrate ben più che profonde.
1 Rimandiamo all'edizione: Casini, P. (2019). Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri ordinato da Diderot e D'Alembert. Roma: Laterza.
2 In questa prospettiva desideriamo richiamare il concetto di virtualità della tradizione proposto da Augusto Del Noce, acuto interprete di Rosmini. Rimandiamo per approfondimento alle lezioni tenute da Del Noce sul pensiero rosminiano contenute nel testo: Del Noce, A. (2016). Rousseau. Il male, la religione, la politica. Con le ultime lezioni su Rosmini. Brescia: Editrice La Scuola.
3 Si osservi, a conferma dell'importanza del fenomeno religioso nella costituzione di una società, il fatto che quando nel XX secolo le religioni trascendenti, ancora dominanti nel periodo dei nostri autori, furono dichiarate morte, il vuoto da esse lasciato venne immediatamente riempito da altre forme ma sempre religiose, le religioni secolari come ad esempio quella marxista.
4 La diffusione del pensiero di Tocqueville aumentò, anche grazie a Rosmini, già a partire dalla seconda metà del XIX secolo, come messo ben in luce dallo studio di Pertici, R. (2018). Tocqueville in Italia: a proposito di una tradizione di studi, in Id., La cultura storica dell'Italia unita. Saggi e interventi critici, Roma, Viella, 2018, pp. 139-163. Riguardo invece a una breve rassegna della diffusione degli scritti italiani su Tocqueville negli ultimissimi anni rimandiamo alla recente rassegna di Griffo, M. (2022). Tocqueville in Italia, la più recente stagione (2018-2021) in Nuova informazione bibliografica, n.1 / Gennaio-Marzo 2022.
5 Cf. Buscemi, M. (2020). Rosmini e Tocqueville. Le ragioni cristiane del liberalismo. Napoli: Editoriale Scientifica.
6 Cf. Nicoletti, M. (2021). La riflessione rosminiana sulla libertà, in Cosmopolis, 18:1(2021).
7 Cf. Rosmini, A. (1981). Antropología in servigio della scienza morale. Roma: Città Nuova.
8 Cf. Tocqueville, A. (1969). La rivoluzione democratica in Francia. Torino: Utet.
9 Rosmini nello stesso anno scrisse anch'egli un testo contro lo stesso avversario politico di Tocqueville, ovvero il socialismo. Rosmini, A. (1981). Saggio sul comunismo e sul socialismo. Milano: Talete.
10 Tesini osserva giustamente che per quanto riguarda i metodi filosofici, Rosmini e Tocqueville presentano differenze rilevanti: "Rosmini ha un temperamento rigorosamente deduttivo, mentre il metodo di Tocqueville è empirico e induttivo, basato sull'osservazione dei fatti; la mentalità assolutamente speculativa dell'autore italiano si oppone all'atteggiamento dichiaratamente antifilosofico dello scrittore francese". Tesini, M. (1987). Rosmini lettore di Tocqueville, Stresa. Editoriale Sodalitas, p. 271.
11 Cfr. Machiavelli, N. (2012). Il príncipe. Segrate: Rizzoli.
12 Cf. Mill, J.S. (2006). Saggi sulla religione. Milano: Feltrinelli.
Referencias
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